Giudizi Universali, [ Contest Cinque Stagioni - Tema Estivo ]

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view post Posted on 16/7/2010, 20:24
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Eccomi qui!
Sappiate che sto gnaulando tantissimo perché sono la prima a postare pure stavolta e perché la mia storia fa pena! XDD



Titolo: Giudizi Universali
Autore: Kiki May
Presentazione: Duuuuuuuunque, , io avevo pensato di scrivere una storia totalmente diversa, che parlasse di un pairing molto famoso e amato.
Non ce l’ho fatta.
E, l’altro giorno mentre aspettavo l’autobus, mi è venuta questa geniale e strabiliante idea. Perdono.
Comunque, dicevo (faccio schifo anche nelle presentazioni!) piccola ficlet dedicata a Shura in relazione con un personaggio originale. Non guardatemi così! è_____é Non è colpa mia!
E’ tutto dovuto a questo continuo parlare di Spagna, spagnoli, mondiali, rosso e giallo (?)
Ruri, è colpa tua! *non sa come la prenderà*
Eh …. Shura <3 Ti amo anch’io! çOç
Questa storia breve parla di un addio sofferto ed è collocabile, a livello temporale, negli anni precedenti all’arrivo dei bronzini al santuario. Quando ancora comandava Saga, per intenderci.
Personaggi/Pairing: Shura e Marisa (OC) la mia Mary Sue. Spero che risulti abbastanza originale, anche se in poche righe. Era necessaria la sua presenza perché, come è stato ampiamente dibattuto, Shura è etero.
Genere: Drammatico, sentimentale.
Rating: Verde
Note: Mi pare di aver detto tutto. Davvero, volevo scrivere una cosa più leggera, ma ho avuto questa illuminazione improvvisa e … tah dah!
La ficlet si chiama Giudizi Universali e spero di aver fatto bene a metterle questo titolo (e spero soprattutto che si capisca perché l’ho scelto. No, non c’entra niente con la canzone!) Sinceramente: “Vattene amore” mi avrebbe uccisa per imbizzarrimento. Non potevo.
Warning: John Keats citato a sproposito.

Enjoy!




Giudizi Universali







Il sole bruciava alto in cielo, riscaldando l’aria di un agosto già secco e soffocante.
Marisa stendeva i panni, percorsa da un lieve tremito, infastidita dalle mosche sulle sue dita sanguinanti, bendate alla meglio con cerotti umidi.
Ogni tanto, con grande sforzo, doveva chinarsi sui ciottoli, nel terreno polveroso, per raccogliere mollette troppo scivolose e rifornirsi di lenzuola fradice.
A fatica dominava voglia furiosa di grattare una povera gamba martoriata dalle zanzare, patendo l’impietoso pulsare delle tempie.
Uno spostamento di vento leggero, le fece il dono di un respiro.
Serrò gli occhi, assorta. Nel riaprirli scorse lui.
Fermo accanto ai cespugli in fiore, luminoso da accecare nella sua armatura dorata.
Marisa dovette portarsi una mano alla fronte per fare da schermo.
Spostò i capelli scuri e prese un respiro più profondo.
“Shura …”
“Vuoi che t’aiuti?”
“Non fa niente. Togliti da lì, non vedo nulla!”
Il cavaliere del Capricorno si fece da parte, leggermente imbarazzato, riparandosi dietro un enorme ulivo.
Ancora una volta, Marisa si chinò, facendosi forza.
“Non dovresti stendere i panni a quest’ora e con questo caldo.”
“Sì … dove sei stato? Puoi dirmelo?”
“Prenderai un’insolazione.”
“Non preoccuparti, mancano solo due tovaglie.”
“Hai fatto una grande lavatrice!”
“Non ho avuto tempo di badare alla casa, in questi giorni.”
Shura si fece in avanti, ignorando il gemito di disapprovazione della ragazza.
Prese le ultime tovaglie e le stese, tendendo le braccia alla corda alta, rivelando una macchia scura all’altezza del cuore.
Marisa aveva gli occhi disperatamente chiusi e le guance rosse come quelle di un bambino.



Entrarono in casa di lei, sospirando di piacere nell’ombra refrigerante.
Fu Marisa a riprendersi per prima.
Di corsa andò a poggiare il cesto in bagno e tornò per spogliare Shura dell’armatura sacra.
Pratica e veloce come la più consumata delle mogli, lo aiutò a togliere la parte superiore, imbronciandosi alla vista del sangue sul petto candido.
Senza fiatare, prese un panno e pulì via la macchia.
Shura la lasciò fare, socchiudendo gli occhi.
Quando vide la ragazza allontanarsi, raggiunse il frigo e preparò un bicchiere d’acqua, limone e sale.
Cinse i fianchi di Marisa e la accompagnò a tavola per lasciarla riposare.
Le porse la bevanda con infinita cura, carezzando il capo bollente e affaticato.



“Sei venuto per dirmi addio, vero?”
Capricorn non ebbe il tempo d’entrare in camera da letto.
Dovette paralizzarsi all’ingresso, senza fiato.
La voce di Marisa era roca per il pianto trattenuto. La ragazza nascondeva il volto, chinandosi a sistemare mille sciocchezze.
Shura sospirò, incapace di rispondere.
Fu allora che la rabbia di Marisa esplose in tutta la sua violenza.
Gli gettò in faccia una maglia stirata e prese a singhiozzare, stringendo i pugni.
Shura non seppe davvero che dire.



“Sei venuto per dirmi addio …”
Capricorn era chino ai piedi del matrimoniale dove s’era stesa lei, troppo stanca per litigare.
La luce del sole filtrava appena dagli spiragli della tapparella abbassata, rivelando una camera sobria, elegante, d’arredamento antico.
Un grande specchio di fronte alla finestra e due armadi in legno scuro, che dovevano essere appartenuti ad un generazione precedente.
Sull’unico comodino con sveglia, la vecchia foto dei nonni italiani, emigrati in Grecia in cerca di lavoro. Una raccolta di poesie spagnole.
Shura non l’aveva mai sfogliata.
“Mi sento … mi sento come se stessi per morire … come se stessi morendo. Ora, in questo momento. Fa male …”
“Marisa …”
“Fa male! Che tu sia maledetto! Guarda come mi riduci!”
Ancora singhiozzi, lacrime.
Marisa s’era rannicchiata in posizione fetale, improvvisamente colta da un gelo insopportabile.
Il vestitino nero, che portava per stare in casa, s’era alzato tutto, rivelando le gambe morbide.
Shura avrebbe desiderato tendersi e scoprirle. Accarezzare il corpo amato e stringerlo sino a scacciare via ogni paura.
Era Marisa a rifuggire il suo tocco.
Come una bestia ferita, s’era ripiegata su se stessa per dolore e necessità di difendersi. Desiderosa di un ultimo affondo potente, violento, per rendere la pariglia.
“Ti odio. Ti odio! Non hai idea di quanto, in questo momento …”
Un sospiro e l’ineluttabilità del pianto disperato.
Shura provava una grande impressione – ammirazione – nell’assistere ad uno sfogo d’emozione tanto primitivo, totale e femminile in modo straziante.
Lui non era mai stato bravo ad abbandonarsi ai sentimenti, a vivere la passione fino in fondo, obbligato dal necessario controllo che s’imponeva.
Doveva, in ogni istante, onorare il sacro compito affidatogli e il privilegio di vestire un’armatura d’oro, d’essere braccio vivente della Giustizia.
Il sentimentalismo, per un guerriero del suo rango, equivaleva a condanna a morte senza appello.
Marisa, però, tremava, agitando le spalle sottili.
Shura avrebbe voluto stendersi accanto a lei e abbracciarla da amante, come spesso aveva fatto nel corso dei mesi.
“Lo sapevo! Sapevo che mi avresti ridotta come uno straccio! Sei identico agli altri, sai? Sei come tutti gli uomini che ho conosciuto! Egoista, vile e bugiardo! Ed io t’ho creduta, che tu sia maledetto! Che siano maledetti i tuoi compagni che non conosco e la casa che non hai voluto mai mostrarmi! Che sia maledetto il tuo Sacerdote, detestabile creatura senza volto! E la tua …”
“Marisa.”
C’era un limite che non poteva essere oltrepassato neanche con le parole – soprattutto con quelle - ma lo sfogo della ragazza era tollerato da Capricorn, perché riempiva il vuoto profondo che lui stesso sentiva.
Nelle parole di Marisa, cariche di vendetta e risentimento, si celava una fragilità che commoveva Shura, che lasciava immaginare le radici della ragazza e il suo passato, la sua terra.
Tutto, in lei, era riconoscimento d’identità.
Avrebbe voluto non dover essere tanto inflessibile da formulare decisioni inappellabili, giudizi universali.
Purtroppo, era inevitabile.
Per lui, che non aveva mai fatto promesse.
Mai s’era prestato all’inganno o alla menzogna e, subito, aveva chiarito le circostanze di quella sfortunata relazione.
Il silenzio l’aveva reso un amante straniero ma, per gentilezza innata e forza del sentimento, non aveva potuto non mostrare l’affetto che nutriva per quella ragazza appassionata.
In ogni carezza, in ogni gesto, aveva svelato una premura dolcissima, assuefante e, tra le sue braccia, Marisa era scivolata piano nel baratro oscuro dell’amore.
Non avrebbe mai voluto farle provare una tale spaventosa gioia.
“Lo sapevo che mi avresti fatto del male! L’avevo capito sin dall’inizio! Io non volevo neanche parlarti! Non volevo!”
Adesso, a mentire era la ragazza.
Shura la perdonava per lo stesso sentimento - dolcissimo, premuroso – che gli stringeva ancora il cuore.
Nessuno spazio per il rancore, solo gratitudine in memoria dell’infinito sollievo che aveva sentito nell’abbandonarsi a lei, nell’odorare la pelle che sapeva d’arance e rose e stringere un corpo tiepido e cedevole contro il proprio.
Con Marisa, Shura aveva sperimentato la leggerezza.
Negli istanti trascorsi col capo immerso nell’incavo del collo di lei, aveva potuto godere del tocco lieve di piccole dita femminili.
Leggere, tra i capelli.
Se ci pensava davvero, erano quei gesti amorevoli ed silenziosi che avrebbe rimpianto sempre negli anni a venire.
Le premure di una donna era innamorata di lui.
Chiuse gli occhi, assaporando per l’ultima volta il profumo della stanza che l’aveva visto uomo più che cavaliere.
Era tempo di andare.
S’alzò con grazia, rivolgendo uno sguardo alla ragazza che, a denti stretti, gemeva parole incomprensibili, scivolando nel sonno.
Pensò di rassicurarla, ma s’arrese senza provare.
Fermo nella decisione ormai presa, s’allontanò dalla camera ombrosa e tornò a rivestire il cloth d’oro, più pesante che mai.
Avrebbe desiderato domandare un bacio ancora, una carezza d’addio.
Invece, posò il bicchiere sporco in lavandino e uscì nel calore asfissiante del pomeriggio, gettando lontano un libro di poesie spagnole che nessuno avrebbe più letto.





Mia cara ragazza,
ti amo ancora e ancora e ancora
e senza riserve …
 
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