Rinascere insieme, [Contest Cinque Stagioni – Tema Primaverile]

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Heather-chan
view post Posted on 27/5/2010, 21:22




Titolo: Rinascere insieme
Autore: Heather-chan
Presentazione: Post-Hades, una nuova vita, il disperato tentativo di riscoprirsi e capire se tutto è davvero cambiato... o se per un amore così intenso come è sempre stato il loro, c'è ancora speranza.
Personaggi/Pairing: MiloXCamus, con una breve apparizione di Aphrodite^^
Genere: Sentimentale, romantico, angst... forse melassa -.-
Rating: Direi giallo per le tematiche, ho sempre grosse difficoltà nei rating -.-
Note: Non era iniziata per il contest questa fanfic, lo ammetto... ma giaceva abbandonata alle prime righe da anni... il contest mi ha dato l'occasione per rispolverarla e darle un senso, riadattandola al tema ovviamente^*^


Rinascere insieme



“Amico mio, perché ci hai traditi?”
Gli occhi blu si sbarrarono, puntando smarriti il tetto di tenebra che si perdeva in alto, sul soffitto distante del tempio di Aquarius. Madido di sudore, il proprietario di quegli occhi plasmati nel ghiaccio si sollevò fino a mettersi seduto, spargendo intorno a sé le lenzuola bianche.
Ancora quell’incubo, lo stesso rimprovero che lo ossessionava perennemente, rimbalzando come un’eco distorta da una vita passata alla nuova esistenza.
Era tutto talmente irrazionale e imbarazzante per il suo proverbiale controllo di sé, si disse non senza un velo di autoironia che, se possibile, lo faceva sentire ancor più ridicolo.
Abbassò il capo con un sospiro tra il rabbioso e il sofferente, portandosi una mano sugli occhi per cacciare il denso, fastidioso impasto di confusione, sonno e sudore che gli impediva di riacquistare la lucidità di cui aveva ossessionante bisogno.
Si scoprì a ridacchiare sardonicamente, sentendosi spaventosamente grottesco, non rispondeva neanche delle proprie azioni. Chi credeva di ingannare? Se stesso in primo luogo, se ancora riteneva di essere ciò che era stato… o che forse, dopotutto, non era mai stato realmente.
Era morto una volta, poi un Dio ingannatore aveva soffiato in corpo, a lui e a cinque compagni, nuova, effimera vita, tentando di ingannarli, inconsapevole del loro stesso inganno; insieme a questi compagni era stato ritenuto traditore dagli amici… dall’amico… da Milo. Tornato agli Inferi quando il tempo della sua rinascita era scaduto, ancora rinato per estremo riconoscimento di una forza superiore ad Athena stessa…
Chi, dopo tali vicissitudini, avrebbe potuto anche solo minimamente illudersi di essere sempre la stessa persona?
“Chi potrebbe illudersi di comprendere ancora qualcosa di se stesso?” sibilò in uno strozzato singulto che pareva simile ad un urlo di agonia nel silenzio tombale della notte.
Una lacrima si fece strada, furtiva, tra le dita premute sugli occhi; era così lontana quella vita nella quale non aveva saputo piangere, quell’esistenza folle nella quale aveva respinto sempre ogni idea di lasciarsi andare ad una tale manifestazione di fragilità umana, quando ancora credeva che rifuggire il pianto fosse segno di forza. Quante vane illusioni lo avevano condotto ad essere ciò che era… stato…
Aveva imparato a piangere, eccome se aveva imparato; quante lacrime avevano accompagnato la sua corsa al fianco di Saga e Shura lungo la scalinata delle Dodici Case, quanta fragilità ritrovata nella propria anima, mentre tutto ciò che sempre aveva amato crollava impietosamente intorno a loro? E quanto ancora avrebbe pianto nel ricordare altrettante lacrime angosciose negli occhi blu di Milo mentre le mani dello Scorpione stringevano la sua gola, quello sguardo colmo di doloroso rimprovero, incredulo, latore di un muto messaggio che lui aveva decifrato benissimo? “Perché non me l’hai detto?” Urlavano quegli occhi, “perché non hai cercato di farmi comprendere, perché hai accettato che ti considerassi un nemico?”
E c’era quell’altra frase, pronunciata dalle labbra che ben altre emozioni gli avevano fatto conoscere in passato:
“Amico mio, perché ci hai traditi?”
Irrazionale il suo continuo rimuginare su quelle parole, perché Milo ora sapeva… sapeva che lui non era un traditore, eppure… non l’aveva comunque tradito? Non aveva fatto credere, scientemente, di essere un traditore?
Proprio quest’inganno Milo non era riuscito a perdonargli, era evidente da ogni suo gesto, ogni sguardo; niente sarebbe più stato come prima, niente gli avrebbe restituito l’amore di una vita persa per sempre.
Avrebbe dovuto imparare ad affrontare la nuova esistenza senza di lui, pur così vicino, gli sarebbe bastato scendere qualche scala, attraversare tre templi e l’avrebbe trovato… ma non sarebbe stato lì per lui.
Le mani del santo si abbassarono in grembo, mentre reclinava la testa all’indietro, le palpebre serrate, le labbra morse quasi a sangue; era vero che, chi sapeva illusoriamente mantenere l’autodominio, nel momento in cui lo perdeva del tutto, diventava il primo dei folli. Se ne stava dimostrando la prova vivente.
Seduto a gambe incrociate sul materasso sfatto, strinse i pugni, conficcandosi nella carne le unghie lunghe e laccate, simbolo materiale di una stranezza interiore, al di sotto della superficie rigida, che era sempre esistita, per quanto una maschera straniante avesse tentato di celarla al mondo.
Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, su quelle unghie femminee decisamente originali: come poteva darsi arie di controllata normalità chi esternava un simile vezzo?
Già il solo fatto di voler preservare un ricordo di un terribile trattamento subito era indice di squilibrio, così come lo era quel ghigno che si stava dipingendo sul suo volto nel pensare ironicamente a se stesso. Stava rasentando la scissione di personalità… come Saga… passando dal pianto alla risata isterica, che ancora continuava mentre Aquarius si alzava dal letto, completamente nudo, lui che era abituato a coprirsi pudicamente un tempo, ormai di mantenere la propria esteriore dignità non gli importava neanche più.
L’aspetto più terrorizzante di quell’assurda risata erano le lacrime che la accompagnavano e che non accennavano ad arrestarsi, erano i singhiozzi che ad essa seguirono, senza un logico avvicendarsi di emozioni. Era davvero bastata l’esperienza della morte e successiva rinascita, poi ancora la morte, poi un’altra rinascita, a farlo impazzire in quel modo? E perché stupirsi? A qualunque essere umano che non fosse un saint, che non partecipasse dei misteri dell’universo e del cosmo, sarebbe bastato molto meno.
“Ma io sono un saint!” sbottò stringendo i pugni ancor più di prima; la carne fu ferocemente incisa e chiazze rossastre comparvero tra le dita.
Ignorando quello che non poteva neanche definirsi un autentico dolore, si affacciò alla finestra e puntò lo sguardo sul disco argenteo della luna piena, il cui alone latteo appannava il naturale splendore delle stelle. Una macchia di candore attraversò la sua sfera visiva e stridette: la civetta aveva adocchiato la preda. Rimase immobile, colmo di rispetto per il ciclo della vita che si compiva.
“In fondo tutto rinasce” mormorò, improvvisamente calmo, come il Camus di un tempo, apparentemente impassibile. Ma era consapevole di come quel contrasto rendesse ancor più vivo lo strazio della sua personalità ormai sconvolta. “Tutto rinasce in una forma differente… e anche io non sono più lo stesso… neanche Milo… una nuova vita… e quella vecchia si spezza…”
Sull’ultima parola la voce si incrinò; non avrebbe mai creduto di soffrire così tanto per un cambiamento, per l’ineluttabilità del tempo che corre modificando tutto. Ma quando l’evoluzione giunge a portare via qualcosa di te, di troppo prezioso, qualcosa che dà un senso a quel che sei e che sei stato, l’impressione di non avere altro scopo di esistenza rischia di diventare insopportabile e, in quel momento, il mondo di Camus vacillava, come vacillava il suo cuore. Il vuoto intorno a sé era ciò che percepiva e in quel vuoto annaspava tentando vanamente di aggrapparsi a qualcosa che, sapeva, non c’era più e non ci sarebbe mai più stato.
Chinò lo sguardo sulle proprie mani, ora sollevate ed aperte, i palmi rivolti verso l’altro, stille rosse ancora uscivano dai tagli netti tracciati dalle sue unghie e si soffermò ad osservarle, come affascinato; ma la sua mente vagava su altro:
“Come può aver dimenticato tutto? Che gli sia bastata una nuova vita per cancellare quel che è stato… quel che siamo stati? Che sia bastato un mio errore… per quanto terribile, a fargli perdere ogni traccia di sentimento che provava nei miei confronti?”
Tornò al letto, strappò via dal giaciglio il lenzuolo, senza prestarvi attenzione eccessiva ed infatti il tessuto andò ad impigliarsi in una sporgenza della struttura in legno, lacerandosi; del tutto indifferente alla cosa, il santo di Aquarius si drappeggiò il telo candido intorno al corpo, la stoffa stracciata che strisciava sul pavimento, come uno sgualcito strascico dietro di lui. E intanto camminò, apparentemente senza meta, ma i suoi passi lo portarono fuori dal tempio, tra le colonne all’entrata, permettendogli di affacciarsi sulle vastità rocciose che si estendevano tutto intorno, la luna ad accarezzare oggetti nascosti nel buio, delineandone con grazia le ombre. Ma i suoi occhi corsero in basso; poteva solo immaginare il tempio che riposava tra le rocce, il terzo dal suo in ordine di discesa, eppure i suoi occhi, con il ricordo netto e dettagliato, lo visualizzavano perfettamente.
Le sue gambe si mossero in automatico, scesero il primo gradino, ma poi si fermò, terrorizzato da ciò che stava per fare; sarebbe davvero sceso, come un fantasma vestito di un bianco lenzuolo e del chiarore della luna, fino all’ottava casa dello zodiaco, obbedendo ad un impulso irrazionale dal quale avrebbe ottenuto unicamente un’ulteriore sofferenza? Cosa avrebbe fatto una volta giunto davanti alla porta di Milo, nel cuore della notte? Si sarebbe annunciato, gli avrebbe chiesto il permesso di entrare? E poi?
Scosse il capo con un sospiro penoso, quindi tornò sui suoi passi, ma un’ondata di panico lo aggredì prima che potesse addentrarsi al riparo della sua dimora; con un singhiozzo si aggrappò ad una colonna, fin quasi ad affondare le unghie nel ruvido granito, scivolò contro di essa e si ritrovò a terra.
Rimase così per un periodo di tempo che non riuscì a stabilire, né gli importava farlo, si lasciò cullare dall’atmosfera esterna della notte, il capo e la spalla contro il pilastro, circondato dal lenzuolo come a ricercare un abbraccio; senza rendersene conto, cadde dapprima in un agitato dormiveglia, poi in un sonno profondo, popolato da oscure visioni.


***



Qualcun altro si era affacciato a contemplare la luna. Milo, gold saint di Scorpio, non aveva più avuto piacevoli sonni ristoratori da quando, insieme ai suoi compagni, era tornato alla vita, sfuggendo alle ombre dell’Ade. Gli mancava qualcuno che era presente nel fisico, ma distante nell’anima, almeno era ciò che aveva percepito il custode dell’Ottavo tempio la prima volta in cui, il giorno della rinascita, aveva incrociato lo sguardo di Camus di Aquarius, amore di tutta una vita, improvvisamente a lui sconosciuto.
Da quando esattamente?
Da quel momento in cui, prima di precipitare nell’Ade, era stato svelato l’inganno perpetrato dai gold saint rinnegati, un inganno a fin di bene, ma così difficile da interiorizzare.
“Perché non me l’hai detto?” ripeteva ostinatamente tra sé il santo di Scorpio, da quando erano rinati, senza rivolgersi direttamente a colui cui la domanda era indirizzata, perché non aveva il coraggio di incontrarlo seriamente, di parlargli seriamente. “Non potevi parlare, d’accordo, ma perché non farmelo capire? Perché tanta freddezza nei miei confronti?”
Perché nessuna reazione neanche nel momento in cui, uno sconvolto Milo, aveva stretto tra le dita la gola di Aquarius, per poi scivolare ai suoi piedi, aggrappandosi a lui quasi a supplicare, nel disperato tentativo di comprendere, di strappare anche solo un cenno, un’unica carezza da quelle mani bellissime che in passato l’avevano amato possedendolo fino in fondo all’anima?
Quell’ultima freddezza per Milo era stata troppo; e quando si erano risvegliati, sottratti dal fato all’abbraccio dell’Ade, l’aveva cercato con lo sguardo, prima di qualunque altra cosa aveva cercato lui… mentre Camus aveva distolto i propri occhi… e non aveva mai più tentato di posarli nei suoi. Era stato Camus il responsabile del malinteso e Milo si intestardiva, infantilmente, ne era consapevole, perché quei tormenti sentimentali erano ben piccola cosa se paragonati a quanto era stato in gioco, il santo dello scorpione non poteva impedire a se stesso di sentirsi come un bambino superficiale e capriccioso, eppure non poteva farne a meno. In fondo era sempre stato lui a fare il primo passo, a tentare di sciogliere il muro di ghiaccio che Camus era solito erigere tra se stesso e gli altri e Milo avrebbe desiderato, una volta tanto, un briciolo di comprensione.
“Siete due idioti.”
Scorpio sussultò; aveva completamente dimenticato, immerso com’era nei propri pensieri, di non essere solo nella propria casa. Aphrodite di Pisces si era fermato a cena con lui, poi avevano passato la serata in piacevole compagnia e avevano deciso di rimanere insieme anche la notte. O meglio, l’aveva deciso Aphrodite, perfettamente consapevole di quanto bisogno Milo avesse di una serenità che la presunta perdita di un amore sembrava avergli sottratto del tutto. E non sentirsi bene con se stessi rischiava di rivelarsi deleterio dopo un’esperienza sconvolgente come quella che i sacri guerrieri di Athena, eroi nello spirito ma uomini nel corpo, avevano dovuto affrontare.
“Ti ho spaventato?” ridacchiò il custode della dodicesima casa, alzandosi dalla sedia sulla quale se ne stava elegantemente appollaiato e passeggiando altezzoso verso Scorpio. “Eri talmente immerso nelle tue paranoie da dimenticare del tutto la mia presenza, effettivamente mi sentivo un po’ trascurato.”
Accompagnò la battuta con un buffetto non del tutto delicato sul naso di Milo, che grugnì in risposta, serrando le palpebre e tirando indietro il capo.
“Senza contare che sono pronto a scommettere una cosa” sentenziò il biondo Pisces, gettandosi dietro la spalla una ciocca fluente che ondeggiava ad ogni suo passo. “Camus sta facendo come te, si sta tormentando senza riuscire a dormire e pensando che tu neanche lo voglia vedere.”
“Lui?” sbuffò Milo “Secondo me sarà immerso nel sonno dei giusti, di coloro che pensano di non avere niente da rimproverarsi.”
Il greco infuse una tale animosità nelle proprie parole, che Aphrodite sollevò le sopracciglia, perplesso; non immaginava che l’astio di Milo nei confronti di Camus fosse così pronunciato.
“Naa” cantilenò scotendo il capo. “Tu vuoi essere arrabbiato, ma in realtà ti stai torturando per il desiderio di prenderlo tra le braccia, sbatterlo sul letto e…”
“Fermati, Aphrodite” scattò l’altro posandogli una mano sulle labbra. “Ti stai addentrando in terreni pericolosi!”
La mano dello svedese si strinse sul polso di Milo e si liberò di quel tocco invadente, per poter tuttavia insistere ancora sul proprio punto di vista:
“Più che altro non capisco perché non lo fai, perché non sali queste maledette scale e non vai da lui, come non capisco perché lui non le scenda per venire da te. Ma d’altronde so che tu sei sempre stato più capace a mettere da parte il tuo orgoglio e su quel ghiacciolo lassù non ci farei il benché minimo affidamento a riguardo; oh, sì, sarà più colto di te, più intelligente, più…”
“Piantala!”
“Però tu ti lasci guidare dal cuore come lui non sarà mai in grado di fare” continuò Aphrodite più serio, fissandolo intensamente. “E in situazioni come queste hai sempre saputo prendere in mano la situazione meglio di lui. Perché non lo dimostri anche questa volta?”
Milo ricambiò per qualche istante lo sguardo dell’amico, quindi scosse il capo, con un sospiro, e volse di nuovo gli occhi alla luna che accarezzava la stanza.
“D’accordo… sì… lo vorrei fare… ma ho paura. Se adesso arrivassi al suo tempio e mi rendessi conto che, in effetti, lui è tranquillissimo, che non sta soffrendo per questa situazione, che veramente di me non gli importa più nulla, io…”
Lo interruppe il risolino di Aphrodite, che agitava la testa ridacchiando:
“Lo ripeto… siete due scemi.”
Lo svedese accompagnò il commento con una mossa così improvvisa che Milo ne fu colto alla sprovvista; un braccio gli venne ferocemente artigliato e l’amico cominciò a trascinarlo verso l’uscita posteriore del tempio, fermandosi solo quando furono sulla soglia, ma unicamente per dargli uno spintone in seguito al quale Scorpio si trattenne in equilibrio a stento.
“Che diavolo fai?” sbraitò col desiderio irresistibile di prenderlo a pugni.
Aphrodite incrociò le braccia sul petto e lo fissò con aria sardonica.
“Sali!”
Si trattava di un imperativo categorico e Milo aggrottò la fronte, pronto a rispondere per le rime, ma lo svedese lo prevenne ancora:
“Adesso tu ti arrampicherai su questi scalini e non ti fermerai finché non sarai giunto all’undicesima casa. E non provare a tornare indietro, perché io non mi muoverò da qui, non ti lascerò rientrare nella tua dimora finché non avrai portato a compimento questa necessaria, per quanto ardua missione.”
“Come se io temessi di prenderle da te” borbottò il greco ma, al broncio, si sostituì subito dopo una risatina leggera, a labbra chiuse.
“Mi hai incastrato” concluse infine. “Non ti si può negare nulla.”
“Sul serio? Allora forse un giorno ti convincerò anche a concedermi qualcos’altro…”
“Sei un cretino” rispose Milo a quella battuta, tuttavia entrambi sorridevano. Infine, con un cenno, Scorpio diede le spalle all’amico e si avviò, senza più voltarsi indietro.


***




“Sto dormendo? O sono ricaduto in quello stato che non è morte né vita, quello che ha preceduto la mia rinascita?”
La sensazione era esattamente quella, il momento di passaggio che gli aveva lacerato lo spirito, il non sentirsi da una parte, ma neanche dall’altra, il corpo che si riformava intorno all’anima, avvezza alla leggerezza della morte, troppo pesante, troppo doloroso da sopportare.
“No, basta, non un’altra volta!”
Sentiva le lacrime scorrergli lungo le guance, avrebbe voluto aprire gli occhi ma non ci riusciva, non osava guardare ciò che lo stava toccando… quelle dita… non osava vedere a chi appartenevano.
“Camus… Camus…”
Era il suo nome… lo riconosceva a stento… e quella voce…
Le palpebre, anziché schiudersi per la curiosità, si serrarono ancor di più, come a cancellare una vana illusione; avrebbe voluto sollevare le braccia per cacciare ogni traccia del sogno, ma non ne era in grado e si limitò a scuotere un po’ il capo, percependo vagamente come proprio il lamento che usciva dalle labbra.
“Camus, stai bene? Non riesci a svegliarti?”
Domanda retorica, era così evidente, c’era una sola persona in grado di porre quesiti tanto sciocchi ed inutili.
“Forse non voglio svegliarmi, ci hai pensato?”
Le parole uscirono senza che lui lo volesse realmente, un po’ deboli, incerte, ma chiare.
“Ma voglio che tu lo faccia, mi metti ansia con questo atteggiamento!”
Cantilena piagnucolante da bambino mai cresciuto che si celava sotto le sembianze di un uomo adulto. Camus, pur ad occhi chiusi, poteva veder oscillare davanti al proprio sguardo l’espressione imbronciata che sembrava sul punto di trasformarsi in un pianto molto poco degno di un guerriero.
“Ma come oso formulare osservazioni simili sulla mancanza di dignità di qualcuno, proprio adesso, proprio io?”
“Tu metti ansia solo con la tua presenza oppressiva.”
Parole dure che contraddicevano con l’essenza dei suoi pensieri, accompagnate dal lieve tremolio delle palpebre che lasciarono, finalmente, intravedere i suoi occhi alla persona che gli stava davanti. E la scorse in tempo per vedere quel viso abbronzato alterarsi, deformarsi in quello che era dolore misto a rabbia:
“Solo questo sai dirmi? Dopo tutto quello che…” Milo deglutì, la voce che gli si spezzava. “Sai solo farmi notare quanto io ti dia fastidio?!”
Finalmente una mano di Camus si mosse, salì fino alla fronte, dove si posò, come a voler fermare il capogiro di cui era preda.
“Per favore, Milo… aspetta un…”
“Sono venuto qui con l’intenzione di capirci qualcosa” Scorpio non aveva ascoltato il suo sussurro, troppo preso a gridare e gesticolare. “Volevo davvero colmare la nostra distanza, volevo davvero provarci. Arrivo e ti trovo completamente nudo, accasciato contro una colonna, apparentemente addormentato ed incapace di svegliarti… e nel frattempo piangi! Mi preoccupo e tu… riesci comunque a farmi pesare la tua maledetta aura di superiorità!”
“Non volevo fare questo, smetti di urlare adesso, per favore?”
Infine Camus riuscì ad infondere un po’ di sicurezza nella propria voce, ad alzarla in modo da farsi udire e i suoi occhi si aprirono decisi, fissi con il loro azzurro intenso sul volto di Milo, la mano ancora sulla fronte, a tirare indietro un ciuffo di capelli rossi.
E Milo si bloccò, un po’ soggiogato dal tono, un po’ rapito da quella visione da spettro notturno; la nudità di Camus, circondata dal candore del lenzuolo ai suoi piedi, da quello delle colonne intorno, accarezzata dal delicato chiarore lunare, esaltava in maniera dolorosa una bellezza alla quale il santo di Scorpio non aveva mai potuto resistere, non nella loro precedente esistenza, e neanche in quella nuova che era stata loro concessa. Era ancora vittima del suo fascino, troppo, più lo contemplava e più era convinto di non poter fare a meno di lui.
“Non mi dai fastidio…” mormorarono le labbra vermiglie, nella loro linea perfetta, come perfetto era ogni particolare di quel viso di ghiaccio. “Non so perché ero qui… non so perché mi sono addormentato così… forse… ti aspettavo… non credi? Forse… era la nottata giusta…”
A quelle parole seguì il gesto della mano, che si tese verso il santo di Scorpio:
“Io credo che dovremo parlare di tante cose… credo di doverti delle scuse… e delle spiegazioni…”
Milo ingoiò la propria emozione, mise la propria mano in quella di Aquarius e si lasciò trascinare fino ad accucciarsi di nuovo davanti a lui, nella posizione in cui si trovava poco prima, mentre tentava di svegliarlo.
“Temevo… non mi volessi più” confessò ancora Camus. “Che non avresti potuto perdonarmi troppe cose e che, forse, una nuova vita non potrà mai essere come la vecchia… temevo tutto questo e non ti cercavo, per paura di una conferma. Ma vederti qui, adesso, sapere che sei venuto apposta per…”
Esitò, trasse un profondo sospiro, evidentemente ancora incerto di cosa il futuro riservava ad entrambi. “Per cosa sei venuto… Milou?”
E Milo sorrise, nell’udire quel vezzeggiativo con il quale Camus l’aveva sempre chiamato quando si lasciava andare ai suoi rari momenti di affettività pura:
“Adesso la domanda sciocca l’hai fatta tu… cheri.”
“E la tua pronuncia francese non migliorerà neanche se rinascerai per altre mille vite.”
“Meno male che sono io quello che parla troppo.”
Durante quello scambio di battute i loro visi si erano avvicinati e, negli istanti successivi, nessuno dei due parlò più, le labbra impegnate ad assaggiarsi reciprocamente, per la prima volta da quando erano tornati dall’Ade, ma questo non fece sì che cadessero vittime di una passione incontrollata. Si dominarono quel tanto che bastò per separarsi ancora e guardarsi negli occhi, per scambiarsi ancora lievi sussurri.
“Vogliamo ricominciare? Ci proviamo?”
“Mi sembra che già lo stiamo facendo, Milou.”
Stettero così, abbracciati, per il resto della notte; parlarono poco, si amarono molto, ma con delicatezza, soddisfacendo il bisogno di affetto reciproco che entrambi provavano. E il sole li trovò ancora abbracciati, forse, come lui, rinati una volta di più.
 
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